Guido Rossa “fotografo in solitaria”. Intervista a Sergio Luzzatto

di Enrica Bricchetto

 

In occasione della mostra Guido Rossa fotografo. Anche in una piccola cosa abbiamo intervistato a Sergio Luzzatto, storico dell’età contemporanea, autore del libro Giù in mezzo agli uomini. Vita e morte di Guido Rossa Torino, Einaudi, 2021.

La mostra, prodotta da Palazzo Ducale di Genova, che Sergio Luzzatto ha curato insieme a Gabriele D’Autilia, è stata allestita a Torino, al Polo del ‘900, a cura di Istoreto dal 28 settembre al 23 ottobre 2022 al Polo del ‘900 (tutte le info qui)

Nel libro Luzzatto ricostruisce per la prima volta dal punto di vista storiografico la figura di Guido Rossa. Grazie alla collaborazione di Sabina Rossa, ha potuto prendere in esame l’archivio personale di cui la parte più cospicua è il fondo fotografico.

Come è nata l’idea della mostra Guido Rossa fotografo. Anche in una piccola cosa per la Fondazione Palazzo Ducale a Genova?

S.L. .L’idea della mostra è nata molto semplicemente, molto naturalmente quando ho avuto la possibilità di entrare nella casa della famiglia Rossa a Genova, grazie alla figlia Sabina.
Inizialmente cercavo l’archivio di un operaio, di un metalmeccanico degli anni ‘70, di un sindacalista, di un militante, di un quadro comunista: ho trovato qualcosa di quella documentazione, anche abbastanza struggente considerata quella che è stata la fine di Guido Rossa – ma ho soprattutto trovato le fotografie.
Insieme allo storico della fotografia Gabriele D’Autilia, ho cominciato a ragionare sul significato di questo archivio. Poi abbiamo proposto a Palazzo Ducale, a Genova, di trovare uno spazio espositivo per restituire Guido Rossa alla città del suo martirio, dove lui si è sacrificato per contenere l’espansione in fabbrica delle Brigate Rosse. Genova conosceva Guido Rossa soprattutto come vittima. Questa mostra lo ha restituito da un altro punto di vista.

L’archivio fotografico, però, non ha soltanto fotografie di Genova…

S.L. La componente più notevole dell’archivio fotografico riguarda la spedizione in Nepal con il CAI Uget di Torino, nel 1963, quando Guido Rossa  viveva a Genova da due anni .


Sia le foto scattate in India, lungo la via per raggiungere l’Himalaya, sia quelle della spedizione in alta quota restituiscono non solo l’esperienza alpinistica ma anche quella umana, antropologica.  Tra quelle montagne Guido Rossa e i suoi compagni scoprono quella che chiama “la fame dell’Asia”. La missione alpinistica non sarà felice per la morte di due compagni, Giorgio Rossi e Cesare Volante; ma lo sguardo di Guido Rossa cambierà per sempre, guardando più in basso, verso l’umanità, e meno in alto, verso le cime, come era abituato a fare da alpinista. 
Poi ci sono le foto della Liguria, che voleva scoprire perché veniva da un’altra regione. Sono foto di una fuga, dalla quotidianità dell’operaio ma anche dall’impegno politico, una ricerca di bellezza che è anche denuncia. 

 

 

Si può dire che anche la mostra di Torino sia una restituzione?

S.L. Sì, contrariamente a un’idea corrente, Guido Rossa non era genovese ma torinese d’adozione   e bellunese di nascita. Torinese è rimasto fino all’ultimo anche nel dialetto che parlava. Con Gabriele D’Autilia e grazie alla disponibilità di Istoreto ci è sembrato importante dare l’opportunità anche alla cittadinanza torinese di riscoprire, quarant’anni dopo la sua fine, questo concittadino così particolare e così rappresentativo di una parte intera della storia repubblicana. 
Che la storia di Guido Rossa abbia a che fare con Torino lo dimostrano anche i seminari che Istoreto insieme alla Fondazione Nocentini e il Museo della Montagna intorno a questa mostra.
Il carattere scientificamente ricco di questi incontri testimonia il terreno di coltura dentro cui è nata l’esperienza politica e artistica di Guido Rossa, e portare a Torino questa mostra significa darsi l’opportunità di riflettere sugli intrecci tra la vicenda alpinistica e sindacale di Guido Rossa a Torino con la grande storia degli operai e dei metalmeccanici degli anni ‘60 e ‘70.

Veniamo ora al libro. Cominciamo dal titolo, perché proprio questo?

S.L. E’ una frase di Guido Rossa, tratta dalla sua lettera più famosa, che ne mantiene la memoria quasi a livello di social, scritta al suo amico, compagno di cordata di Aosta – Ottavio Bastrenta – nel 1970, appena eletto delegato sindacale nell’età dello statuto dei lavoratori e della creazione dei consigli di fabbrica. È il momento in cui un suo militantismo e sindacalismo più generico o più blando diventa quasi un secondo mestiere. Guido Rossa in questa lettera, bellissima, scrive “dobbiamo andare giù in mezzo agli uomini”. È una frase che mi ha colpito perché è una frase da alpinista, c’è una dimensione di discesa nella contesa, nella città, anche nella fabbrica, nel mondo giù, quello che l’alpinista vede sempre dall’alto, che mi è sembrata suggestiva, parlante rispetto a lui. Questa frase mi è sembrata meritevole di dare il titolo a tutto il libro. Il momento in cui decide di scendere in mezzo agli uomini è il momento che gli cambia la vita.

 

“Guido Rossa è un sestogradista”: questo sostantivo costituisce la metafora della sua esistenza?

S.L. La dimensione del sesto grado è metafora della vita come sfida, come difficoltà, come luogo in cui bisogna dimostrare coraggio, ma anche della vita come solitudine. Nel sesto grado, anche se hai i compagni di cordata, a un certo punto il passo più difficile, quello esposto, lo strapiombo, lo devi superare da solo, nessuno ti può aiutare.  Come operaio, invece, Rossa non era mai da solo, che lavorasse nella piccola fabbrica o nella grande fabbrica privata o pubblica. Questa polarità è l’aspetto più drammatico della vita di Guido Rossa: la tensione tra la compagnia e la solitudine, quella dei sestogradisti che non vanno in cordata da soli proprio perché sanno misurare il pericolo della solitudine in montagna: il contrasto è la cifra della sua esistenza. Le fotografie che ho messo nel libro declinano questa alternanza. Per questo, nell’introduzione al catalogo della mostra – ricco di saggi di grande interesse – ho usato l’espressione “fotografo in solitaria”. Anche da fotografo è stato solo, a parte quando portava con sé la sua bambina piccola, Sabina.

 In che rapporto stanno nel libro fotografie con la narrazione?

S.L. Mi viene da rispondere che in principio c’è Pamuk. In altri miei libri ho usato le foto come in questo, dopo la pubblicazione di Istanbul di Pamuk e di Austerlitz di Sebald. Da lì nasce un’idea più narrativa che storiografica, cioè che le foto possano costituire un secondo racconto, soprattutto quando non vengono trattate come normalmente si fa nella saggistica, con le didascalie che spiegano. Le fotografie per me sono una seconda narrazione, non hanno didascalie perché invitano il lettore a fare lo stesso lavoro di lettura che fa sul testo, dove non tutto viene spiegato perché il lettore entra in dialogo. L’ho già fatto in altri libri. Nello specifico del libro di Guido Rossa c’era un di più, dato dal fatto che lui stesso era un fotografo.

Cosa c’è nell’archivio, oltre alle foto?

S.L. Ho avuto l’opportunità di entrare in casa di Guido Rossa con l’emozione data dal fatto che ancora adesso la figlia abita nella casa che era dei nonni, in cui ha vissuto con il padre e la madre. L’archivio di Guido Rossa non contiene moltissimo, le fotografie sono la parte più cospicua, più di mille. Poi ci sono le carte del sindacalista: una cartellina, tenuta insieme da un elastico, gonfia di carte dove lui dall’inizio degli anni ‘70 ha accumulato tutti i volantini non solo del PCI, ma anche dei movimenti, tutti quelli che lui ha ritenuto meritevoli di essere conservati. Poi ci sono i materiali preparatori per i consigli di fabbrica, gli appunti sulle discussioni da fare. Un archivio importante dal punto di vista della storia del lavoro.
C’è poi l’agendina nel 1966 in cui ha trascritto le poesie che gli stavano a cuore, compresa la canzone popolare delle isole Gilbert, da cui questa proviene il titolo della mostra.

Nel libro si percepisce anche una ricerca viva, fatta di incontri e interviste. Quali sono le più significative?

S.L. Per questo libro direttamente ho impiegato tre lunghe interviste: alla vedova, Silvia Carrara, al fratello Giancarlo e a Dino Rabbi, l’amico di una vita.  Sono testiminianze importanti che dicono molto più sulla memoria che sulla storia. Richiedono la cautela delle fonti orali perché restituiscono dati sensibili, che guidano lo storico, come fossero i cinque sensi che le fonti storiche non possono dare. I tratti del carattere di Guido Rossa arrivano da loro. 

Che esperienza vive Guido Rossa a Torino? 

S.L. Torino per lui è la città della piccola fabbrica, la Chiumino e Siccardi, che produceva cuscinetti a sfera e apparteneva all’indotto Fiat. Di fronte all’ambiente cattolicissimo, di capitalismo paternalistico in cui lavora dai suoi quattordici anni con tutta la famiglia, Guido Rossa si pone con un atteggiamento un po’ ribelle, appena può scappa in montagna ma, politicamente, possiamo definirlo senza partito.
Nel 1959 entra alla Fiat, quando questa vive la scommessa, quasi temeraria, di diventare una delle grandi fabbriche d’Europa. Qui Guido Rossa vive un’esperienza forte e, pur non essendo operaio specializzato, viene assegnato alle Presse, a Mirafiori Sud. La Fiat sta investendo in macchinari sofisticati e lui viene valorizzato come operaio con la testa, che è in grado di effettuare operazioni complesse. Siamo però alla Fiat delle schedature aziendali, del dissenso sindacale che contribuisce a politicizzarlo.  Non è dato accedere ai fondi del personale nell’archivio della Fiat, e quindi non possiamo prendere in esame il suo fascicolo personale. Sul suo percorso di “radicalizzazione” non abbiamo dati certi, ma le testimonianze indicano che, nel corso degli anni ‘60, è diventato politicamente e sindacalmente più consapevole.

Che cosa significa arrivare all’Italsider di Genova Cornigliano nella prima metà degli anni ‘60?

S.L. Arrivare all’Italsider in quel periodo non è arrivare in un posto come un altro. È il gigante della siderurgia italiana pubblica – lui passa da un gigante all’altro, provenendo dal privato della FIAT. Quello dell’Italsider è un ecosistema a parte, essere operaio lì è diverso che esserlo all’Ansaldo o al porto, dove la mobilitazione è forte. Gli operai assunti erano filtrati dalla rete delle parrocchie e dalla segreteria del cardinale Siri, cui si era rivolta anche Silvia Carrara per far assumere il marito. Alla prova del ‘68 la moderazione non regge e anche gli operai dell’Italsider condividono le rivendicazioni fondamentali di quegli anni: lo statuto dei lavoratori, i consigli di fabbrica, l’inquadramento unico degli impiegati.
L’Italsider, soprattutto nella prima metà degli anni ‘60 quando è arrivato Guido Rossa, è anche il luogo di una sperimentazione che non ha precedenti in Italia, se non nella Olivetti di Ivrea degli anni ‘50.  Si punta all’ acculturazione degli operai attraverso il “Circolo ricreativo”, il CRAL, non definito dopolavoro perché è un termine che sa di fascismo, o sa di sacrestia. Questo è incoraggiato dalla dirigenza aziendale, che vuole tenere gli operai buoni, ma che è anche visionaria, è fatta da un art director come Eugenio Carmi e da un manager come Gianlupo Osti: che scommette sulla realtà forse impossibile di condivisione degli obiettivi in un gigante industriale che vuole competere a livello mondiale fra capitalisti, padroni e operai, dove il padrone è un padrone particolare perché è lo stato. Dentro questa miscela Guido Rossa cresce. Non c’è molta documentazione sulla sua partecipazione al CRAL. La mia impressione è che a Genova lui non sia così spontaneo come era stato a Torino. La sua maturità forse lo snatura un po’, ma culturalmente cresce, e cresce anche come artista, dipinge, scolpisce e vince molti concorsi aziendali e si dedica alla fotografia. Quella macchina fotografica che finché è in Nepal porta a tracolla come un turista diventa lo strumento che gli serve per guardare al mondo non più dall’alto ma giù in mezzo agli uomini, e per dare il suo contributo a cambiarlo impegnandosi come delegato sindacale della FIOM CGIL.
Sono gli anni ‘70, la storia accelerava intorno a lui che si trova a vivere la sfida del terrorismo in fabbrica. I percorsi dei movimenti e della sinistra tradizionale si dividono. Le organizzazioni terroristiche a Genova attecchiscono più all’Ansaldo che all’Italsider. Dal ‘77 in poi il ritrovamento di volantini era frequente in tutte le fabbriche ma nessuno denunciava. Molti operai appartenevano alla “zona grigia” di chi non si sentiva “né con lo stato né con le BR”.  Le Brigate Rosse si incattiviscono perché il successo in fabbrica non c’è. Guido Rossa intuisce che dalla zona grigia le BR possono illudersi di trovare risorse umane da convertire, e quando scopre il “postino” delle BR, da solo, lo denuncia, interpretando le indicazioni precise venuta dal PCI. ll paradosso è che soltanto attraverso la sua morte chi appartiene a questa zona grigia si sentirà costretta a scegliere il proprio campo. 

 Come hai scelto di raccontare la storia di Guido Rossa?

S.L.Come un ritratto più che come una biografia perché è il frutto di un’interpretazione, è come io vedo Guido Rossa. Se siamo d’accordo che la storiografia degli ultimi anni sia cambiata, abbandonando in molti casi la voce fuori campo, c’è una mia presenza nel libro. E questo ne fa ancora di più un ritratto che una biografia, liberando Guido Rossa dall’istantanea della sua morte e aprendo, come scrivo nel libro, l’album della sua vita.

(le foto utilizzate nell’intervista appartengono all’archivio fotografico di Guido Rossa. Riproduzione consentita a uso stampa)

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