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  Carceri Nuove Corso Vittorio Emanuele II, 127   
(tram: 9-15 bus: 56-60-68)

 

Carceri Nuove
Carceri Nuove.

Il carcere giudiziario di Torino, meglio conosciuto con l'appellativo "Le Nuove", è un esempio notevole di edilizia carceraria della metà dell'Ottocento.
Il concorso per la sua edificazione, indetto nel 1857, fu vinto dall'architetto Giuseppe Polani che, tra il 1857 e il 1861, presentò i vari progetti di massima. La costruzione, realizzata tra il 1862 e il 1870, seguì lo schema a doppia croce, derivato dal sistema "panopticon" (una struttura centrale dalla quale si dipartono i "bracci" che ospitano le celle, in modo tale da consentire il controllo contemporaneo di ogni corridoio), ancora oggi conservato nonostante le continue ristrutturazioni. È tuttora visibile, accanto alla garitta d'angolo su corso Vittorio Emanuele, l'antica dicitura "Le Nuove", ormai entrata nel lessico dei torinesi. Durante il fascismo, e ancor più durante gli anni della guerra, il carcere divenne luogo di reclusione per gli oppositori del regime fascista.
La mattina del 26 luglio 1943 - una città svuotata per lo sfollamento dei due terzi dei suoi abitanti aveva appreso la sera prima la notizia della caduta del fascismo dai proclami del re e di Badoglio trasmessi dalla radio - cortei di manifestanti che inneggiano alla fine del regime e al re percorsero il centro della città: alla stazione di Porta Nuova, dove affluiscono i lavoratori residenti o sfollati in provincia, militanti comunisti usciti alla clandestinità, Remo Scappini, Luigi Capriolo, Giovanni Guaita, improvvisarono un comizio e diressero folti gruppi di manifestanti alle carceri per reclamare la liberazione dei detenuti politici. Con un autocarro venne sfondato il portone, la folla invase il cortile interno e circa cinquecento "politici" detenuti nel terzo braccio vennero liberati; un reparto armato dell'esercito, sopraggiunto dalla vicina caserma Cavalli, non intervenne e l'ufficiale che lo comandava venne portato in trionfo. Il corteo si riformò con i liberati e raggiunse nuovamente il centro della città (Guglielminetti, 1955, p. 94; Agosti, Sapelli, 1976, pp. 1-2).
Dopo l'8 settembre 1943 la repressione fascista e tedesca, la legge imposta dall'occupante, l'arbitrio degli arresti e delle razzie condussero in carcere nuovi soggetti: operai arrestati dopo gli scioperi, ebrei in attesa della deportazione, partigiani catturati, renitenti alla leva, cittadini incappati in una retata. Alla dura condizione carceraria si aggiunse l'incertezza per la propria sorte: non era più contemplata la possibilità di adattarsi per un periodo certo alla cella e alla nuova condizione: si usciva per la deportazione nei Lager, per l'esecuzione della condanna a morte, per l'improvviso prelievo di prigionieri da fucilare come rappresaglia, per l'invio al lavoro coatto in Germania. Dal 30 aprile 1944 vi furono detenuti i membri del primo Comitato militare regionale, fucilati il 5 aprile; in qualche caso fu possibile anche la liberazione, grazie a trattative o alla corruzione di alti funzionari tedeschi o fascisti. Un braccio, il primo, era gestito direttamente dai tedeschi: il 7 aprile 1944 vi morì, dopo inumane torture, Emanuele Artom, giovane partigiano ebreo, commissario politico della V divisione Giustizia e libertà; il suo corpo, sepolto nei dintorni della città, non venne più ritrovato. Interrogatori, cibo scarso e immangiabile, tensione nervosa, miasmi, pulci, pidocchi e cimici: molte sono le testimonianze. Ennio Pistoi: "Una serie di cancelli che si aprono e si richiudono al passaggio del furgone, il sequestro degli oggetti personali compresa la cravatta, la cintura dei pantaloni e i legacci delle scarpe, le impronte digitali stampate per sempre su un grosso libro [...] poi l'entrata in uno dei 'bracci' con le balconate sui di versi piani e le celle in fila, tutte con le porte serrate e munite di sportellini che si aprono soltanto dall'esterno [...] Nella cella, una finestrina con le sbarre molto in alto: è difficile aprirla, almeno per cambiare l'aria, visto che i servizi igienici si riducono a un buco nell'angolo" (Pistoi, 1998, p. 194); Ignazio De Paoli: "Purtroppo tutte le mattine sentivamo lo stridio delle aperture delle catene e sapevamo che tanti li portavano a fucilare. Toccherà a noi? Non toccherà a noi? Chi lo sa!" (De Paoli, Adp, p. 31); Giuseppe Berruto: "Queste prime tre notti alle Nuove sono state le più tremende. Nessuno dormiva, ché tutta la notte sentivi sbattere le porte, urlare, sentivi la gente che entrava, che usciva, che gridava, che piangeva [...] tutte le notti"; Sergio Coalova: "Non sai che le Carceri Nuove di Torino sono famose in tutta Italia per i milioni di cimici che nascondono nei loro muri?" (Coalova, 1985, p. 49).
Con l'approssimarsi degli eventi insurrezionali, le autorità fasciste guardarono alle Nuove con crescente preoccupazione. Il 17 aprile il questore di Torino, Protani, incluse il carcere tra gli obiettivi da presidiare con più attenzione: il giorno seguente il corteo di scioperanti formatosi in piazza Sabotino e diretto verso corso Vittorio Emanuele II, aveva come meta proprio le carceri.
Le notizie dell'insurrezione ormai prossima si diffusero anche tra i detenuti politici del quarto braccio che, approfittando di una più debole sorveglianza, già dal giorno 24 cominciarono ad avere contatti con gli operai della vicina fabbrica Westinghouse, saliti sui tetti dello stabilimento. Iniziarono trattative con la direzione del carcere per la liberazione dei politici. Il giorno successivo alcuni carcerati, forti delle novità provenienti dall'esterno, tentarono un'evasione, dapprima cercando di sfondare i cancelli di accesso e poi di scavalcare i muri esterni. In entrambi i casi i tentativi fallirono.
Il giorno 26 iniziarono le prime scarcerazioni che proseguirono con lentezza fino al giorno seguente, per poi cessare del tutto. Tale provvedimento esasperò i detenuti e li espose al rischio di eventuali rappresaglie del personale fascista ancora in servizio. Si provvide perciò al trasferimento dei detenuti politici, i più seriamente esposti a tale pericolo, dal quarto braccio alle cellette del terzo piano. Estremamente prezioso fu l'operato di padre Ruggero Cipolla, cappellano del carcere, e della madre superiora suor Giuseppina, De Muro che si prodigarono in ogni modo per garantire l'incolumità dei carcerati e che furono parte attiva nelle trattative per la liberazione dei detenuti.
All'esterno intanto si continuava a combattere. Per tutta la giornata del 27 aprile proseguirono le sparatorie tra le guardie del presidio dell'edificio gli operai della Westinghouse, occupata dai sappisti della III brigata del comandante Balbo. La fabbrica, ubicata in via Piercarlo Boggio, nelle immediate vicinanze delle Nuove, era infatti un luogo ottimale per l'attacco. Nel pomeriggio le sparatorie si intensificarono per l'azione congiunta delle Sap e degli uomini della Westinghouse e della Nebiolo. Contemporaneamente, all'interno delle carceri, falliva la prima intimazione di resa rivolta al comandante, maggiore Gino Cera, resa accettata poi in serata. L'ingresso dei sappisti di Balbo consentì la nomina di nuovi funzionari provvisori ed il ripristino di tutti i servizi interni all'edificio.
Il giorno seguente, 28 aprile, l'avvocato Gallo, nominato dal nuovo questore di Torino, Agosti, assunse la direzione delle carceri, mentre reparti della III divisione Gl, comandata da Alberto Bianco prendevano possesso dell'edificio (Vaccarino, Gobetti, Gobbi, 1968, pp. 311 ss., 403-404). Con la liberazione affluiscono alla prigione i fascisti catturati.
L'edificio visse ancora momenti di grande tensione verso la fine del 1945 per una delle più clamorose rivolte carcerarie di quel periodo, insieme a quelle di Regina Coeli a Roma e di San Vittore a Milano (la più sanguinosa, con almeno quattro morti, capeggiata dall'ex milite della Muti Barbieri e dall'ex gerarca Caradonna). In queste rivolte, con una popolazione carceraria cresciuta a dismisura, in presenza di numerosi ex fascisti condannati per crimini o in attesa di giudizio, di criminali comuni e anche, sebbene in misura minore, di ex partigiani non adattatisi alla vita civile, si univano a moventi politici - sono spesso i fascisti detenuti a fomentarle - le reali condizioni di sovraffollamento (i detenuti sono 1800), le difficoltà di approvvigionamenti alimentari, la mancanza di letti e coperte, in un clima di opinione pubblica che vedeva nelle carceri uno strumento di repressione contro i fascisti. Il 29 dicembre le forze dell'ordine entrarono sparando raffiche nei corridoi per sventare un'evasione di massa dei detenuti, che dal 26 avevano occupato il carcere (Neppi Modona, 1974, pp. 1080-1082).
Oggi all'interno dell'edificio una lapide ricorda i detenuti politici che, dal 1922 al 1945, pagarono con il carcere la propria scelta antifascista. Padre Ruggero vi aveva allestito una raccolta di cimeli e reliquie della missione svolta tra i "suoi condannati a morte".
 

 
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