Nella notte tra il 12 e il 13 giugno 1940,
Torino viene bombardata da aeroplani inglesi che colpiscono abitazioni popolari
a ridosso del centro cittadino. È uno shock per la città,
che si trova scaraventata di colpo in un clima di guerra, che si trasformerà
in "abitudine" nell'autunno del 1942. Fino a questo momento la
città è sembrata adattarsi ad una situazione che, accanto
alle restrizioni dei beni di consumo o ai vincoli che la guerra pone ai
movimenti delle persone, mostra risvolti apparentemente positivi.
Infatti, le necessità belliche spingono l'economia - almeno nei settori
più esposti, che crescono fino al 1942 - occupando operai che hanno
iniziato ad affluire dal contado circostante (ma anche dal Veneto), giovani,
donne. Sono i tratti distintivi già evidenti di "Torino città
industriale", del maggior centro manifatturiero italiano. La connotazione
operaia, già netta nel primo dopoguerra, è ora rafforzata
dalla crescita dei settori moderni, il metalmeccanico in primo luogo, di
cui la Fiat costituisce l'espressione più coerente e più forte.
Circa 50.000 dipendenti nel 1943 ne fanno il primo gruppo industriale su
scala nazionale e una forza dominante nella città. È una connotazione
che segna la configurazione urbana, con i quartieri operai attorno alle
fabbriche, con luoghi simbolici del passato e del presente come il Lingotto
e Mirafiori (inaugurata nel 1939), il centro "borghese", la periferia
operaia.
Tra l'inizio della guerra e l'autunno 1942 la città è bombardata
per quattordici volte, sempre di notte, con squadriglie relativamente poco
numerose, ordigni di medio calibro, pochi danni e perdite umane contenute.
Poi, tra il novembre 1942 e l'agosto 1943, dodici incursioni, in due diversi
cicli di operazioni: squadriglie nutrite (oltre 100 aeroplani), bombe di
grosso calibro (2000, 4000, 8000 libbre), decine di migliaia di spezzoni
incendiari, bombe al fosforo. Solo nella notte tra il 12 e il 13 luglio
1943 cadono su Torino oltre 700 tonnellate di bombe che provocano 792 morti
e 914 feriti. Lo sfollamento che ne segue, se accresce da un lato il carattere
della città industriale finalizzata alla produzione (vengono decentrate
anche molte delle produzioni), dall'altro è uno dei fenomeni che,
per la sua ampiezza, contribuisce maggiormente a destrutturare le vecchie
articolazioni dell'esistenza collettiva e a crearne di nuove: al 1°
luglio 1943 oltre il 48 per cento dei torinesi (338.000 su 600.000) ha abbandonato
la città, nell'agosto giungono a 465.000, di cui 110.000 pendolari
giornalieri. Un nuovo ciclo di bombardamenti inizia nell'autunno del 1943,
con incursioni per lo più diurne e con bombe di medio calibro. Le
incursioni si diradano ma non cessano. Le ultime bombe cadono su Torino
il 5 aprile 1945 e raggiungono la stazione ferroviaria di Torino-Smistamento;
alla fine della guerra si contano complessivamente 2069 morti.
La paura, il sentimento che si fa di massa nell'esistenza collettiva, risveglia
comportamenti, ricordi, riti antichi: il santuario della Consolata si affolla
di ex voto, l'immagine della Madonna invocata come protettrice di Torino,
compare alle porte degli edifici.
Cambiano le coordinate di spazio e di tempo: la scansione della giornata
segnata non più dal regolare risuonare della sirena delle fabbriche
ma da quella improvvisa e irregolare degli allarmi aerei, il buio delle
notti oscurate, la fisionomia urbana mutata dagli "orti di guerra":
il parco del Valentino coltivato a patate, piazza d'Armi destinata ai cavoli,
l'immagine dei campi di cereali a ridosso di case e stabilimenti industriali,
il grano trebbiato in piazza Castello il 3 luglio 1942. Il razionamento
del carburante, oltre a far scomparire il traffico privato, dirada i mezzi
pubblici rendendoli affollatissimi, la rete tranviaria è ridotta
e sconvolta dai bombardamenti, le distanze tra le borgate si dilatano enormemente
e ai lavoratori che provengono dai comuni limitrofi, occorrono lunghe ore
per il rientro alle proprie case. In questa situazione le biciclette divengono
mezzi di trasporto insostituibili e i loro accessori preziosissimi.
La fame e il freddo costituiscono gli aspetti più importanti di quel
costante e inesorabile processo di peggioramento delle condizioni di vita
che rovescia i rapporti di forza tra città e campagna a favore di
quest'ultima. La tessera annonaria con cui il regime raziona ogni genere
di prima necessità, diviene sempre più insufficiente, al punto
da non garantire nemmeno la metà del fabbisogno calorico. La limitatezza
delle razioni crea relazioni che riportano al baratto: a partire dagli scambi
tabacco - viveri. L'unica possibilità di far fronte all'emergenza
alimentare, per quanti possono permettersi la spesa, è il ricorso
alla borsa nera, che diventa un fatto di massa nel periodo 1943-45. Le campagne
prendono ad essere battute in lungo e in largo alla ricerca di cibo.
Nella precarietà della vita quotidiana, una burocrazia di regime
sempre più stanca si affanna ad allontanare da sé ogni responsabilità,
al punto da anteporre talvolta le ragioni di immagine al senso comunitario
di solidarietà. Davanti alle sedi rionali del Pnf - incaricato della
distribuzione dei buoni per l'acquisto del carbone - si formano code talmente
lunghe da spingere il prefetto, preoccupato che la gente possa attribuire
al regime questo disagio, ad ordinare che tale servizio non venga più
espletato dal partito.
Pur nell'incontro costante con la fame, la paura e la morte, la città
esprime tuttavia una umana voglia di vivere, una quotidiana convivenza di
orrore e gesti "normali": gli spettacoli, lo sport, le feste popolari
organizzate dal Dopolavoro. Le organizzazioni del Pnf continuano inizialmente
a organizzare gite fuori porta, manifestazioni sportive, balli, "la
Befana di guerra" per i bambini. Solo nel 1943 la guerra "aveva
finalmente incrinato la "normalità" di quelle iniziative,
riplasmando i contenuti di quelle tradizionali, creandone altre, totalmente
inedite. Il 10 aprile 1943 si svolse la festa in onore delle donne che "hanno
degnamente sostituito gli uomini richiamati alle armi" (De Luna, p.
747). Ma già dal 1941 è sospeso il Giro d'Italia, poi toccherà
al campionato di calcio, anche se di partite se ne continueranno a giocare
fino alla fine della guerra.
Le difficoltà crescono progressivamente, l'inverno 1941-1942 è
cruciale per lo sfaldamento del fronte interno e per il crollo del consenso
al regime; è nell'ottobre 1941 che viene introdotto il razionamento
del pane. Con le sconfitte militari sui fronti di guerra, in Africa, in
Russia, fino allo sbarco alleato in Sicilia, il punto di svolta si colloca
tra il 1942 e il 1943, prodotto di molti fattori: l'insufficienza, sotto
gli occhi di tutti, delle strutture di servizio e di sostegno alla macchina
bellica, le razioni sempre più inadeguate, la diminuzione dell'occupazione
per mancanza di materie prime, la costante perdita del potere d'acquisto
dei salari. I comportamenti dettati dalla sopravvivenza entrano inevitabilmente
in conflitto con il regime: ne è un segno, ad esempio, il fatto che
tra il settembre 1940 e l'aprile 1942 sono 8391 i commercianti della provincia
di Torino denunciati per infrazioni annonarie, su 32.000, nel luglio 1943
saranno 11.136, un terzo del totale (Maida, pp. 207-208). La protesta ha
molti volti: dalle sempre più numerose scritte murali contro il fascismo
e le condizioni materiali di vita - sintetizzato dal motto "pane e
libertà" - fino allo sciopero vero e proprio. Negli scioperi
operai del marzo 1943 si esprime così, per la prima volta, un disagio
diffuso in cui domina l'intreccio tra le difficoltà della vita quotidiana
e la consapevolezza politica. Quando esattamente un anno dopo - nel marzo
1944 - scoppiano altri scioperi nelle fabbriche torinesi, il contesto è
parzialmente diverso e più cosciente degli obiettivi antifascisti
ma il richiamo e l'importanza alle esigenze primarie della popolazione non
vengono mai meno.
I sacrifici e le privazioni cui la città è sottoposta ormai
da tre anni sembrano finire con il crollo del fascismo, il 25 luglio 1943.
Inizia una breve stagione di illusioni che si apre con una città
in festa che per tutto il giorno esprime la propria gioia lungo i suoi percorsi
simbolo: via Cernaia, via Pietro Micca, piazza Castello, via Roma. Cadono
i simboli e i luoghi del regime: la Casa Littoria di via Carlo Alberto data
alle fiamme per ore prima che sia permesso ai pompieri di intervenire, i
gruppi rionali della città assaliti e devastati, le scritte propagandistiche
cancellate o scalpellate. Un corteo libera dalle Nuove i detenuti politici
e gli operai arrestati dopo lo sciopero del marzo.
È un'"effimera libertà" che il 10 settembre 1943,
con l'occupazione tedesca, si traduce in un duro colpo per le speranze dei
torinesi. Nei venti mesi successivi la popolazione continua, con sempre
maggiore difficoltà, a vivere i problemi della guerra e della sopravvivenza
quotidiana e quando la città viene liberata, nell'aprile 1945, i
torinesi ripercorrono quelle strade che ne segnano i confini antichi e che
assumono un significato quasi simbolico di riappropriazione di uno spazio
in cui ricominciare a vivere. Prima di tutto, ballando. (N.A., L.B.)