Tra aspettative e cicatrici: la Cina reale e idealizzata. Voglia di incantamento personale e collettivo
di Santina Mobiglia

Il libro di Silvia Calamandrei, Attraverso lo specchio. Cina, andate – ritorni (Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2021, pp. 164, € 18) prende le mosse dal fortunoso ritrovamento, in una libreria antiquaria romana, del diario dell’autrice bambina, scolara in una scuola elementare di Pechino negli anni immediatamente successivi alla nascita della Repubblica popolare cinese. Rintracciando documenti d’archivio, foto d’epoca, lettere, l’autrice sente dunque il bisogno di ripercorrere le esperienze che fin da allora l’hanno portata a incontrare la Cina reale e immaginata, al di qua e al di là dello specchio seducente e sfuggente attraverso cui ha continuato nel tempo a interrogare quel mondo. Di qui un memoir ricco di suggestioni a più livelli di lettura, nella cornice più ampia del richiamo attrattivo a lungo esercitato dalla Cina maoista su più generazioni della sinistra.
C’è innanzitutto la storia autobiografica e familiare di una relazione speciale con la Cina, dove il nonno Piero Calamandrei, costituente azionista, guidò nel 1955 la prima delegazione culturale italiana in visita nel paese dopo la rivoluzione comunista. Ne facevano parte, tra altri noti intellettuali e artisti, Norberto Bobbio, Franco Fortini, Carlo Cassola, Ernesto Treccani, e un’ampia documentazione del viaggio venne pubblicata l’anno seguente nel numero speciale di “Il Ponte”, La Cina d’oggi (di cui si può leggere una scelta antologica curata da Silvia Calamandrei nel nuovo speciale 2020 della rivista), con le impressioni dei partecipanti improntate a una forte ammirazione e fiducia nelle realizzazioni in corso, nel clima di grandi speranze del dopoguerra. Proprio allora Silvia era la piccola Yihua nella scuola frequentata per tre anni (1953-56) a Pechino, dove il padre Franco e la madre Maria Teresa Regard erano corrispondenti esteri per la stampa comunista (“L’Unità”, “Noi donne”, “Nuovo Corriere”), non senza frizioni con le redazioni italiane che avrebbero preteso articoli meno appiattiti sull’informazione ufficiale cinese dalla quale, come risulta da un fitto carteggio, si trovavano totalmente costretti a dipendere. Silvia era perfettamente integrata nell’ambiente scolastico, fiera di essere ammessa tra i pionieri e attivamente coinvolta nel clima di sospetto che vedeva ovunque spie del Guomindang e nemici del popolo, pronta a mobilitarsi con una squadra di propaganda per catechizzare all’ateismo un compagno di famiglia cattolica, fino a un certo imbarazzo per l’arrivo dei nonni che potevano apparire “diavoli stranieri” e persino dei temibili proprietari fondiari per la loro villa a Montepulciano, dove la nonna per giunta metteva le briciole sul davanzale per nutrire i passerotti che lei sterminava come uno dei “quattro flagelli” nella campagna in corso. Tutto si dissolse durante quel viaggio, anche i forti dissidi tra Piero e il figlio fin dai tempi della sua scelta comunista che lo portò, insieme alla moglie, a prender parte nei Gap alla resistenza romana: fu in un lungo dialogo tra loro a Shanghai, scrisse Franco molti anni dopo, che la “fiducia di mio padre e la mia (la sua e la mia illusione?) che un mondo migliore stava venendo, di emanxipazione degli uomini e dei popoli, si confrontarono quel giorno nel colloquio più concorde che avessimo mai avuto”.
Silvia ritorna in Cina nel 1974, nel pieno fervore maoista degli “anni ’68” animato da una visione idilliaca e idealizzata della rivoluzione culturale come punta avanzata del movimento giovanile antiautoritario globale. Nel gioco di specchi tra generazioni, ricorda come alla partenza il padre l’avesse messa in guardia dagli abbellimenti della propaganda, per poi annotare un anno dopo nel suo diario: “Conversazione a due con Silvia di ritorno da Pechino. Senso di squallore delle sue impressioni, e affanno stanco suo di dissimulare una delusione, una perdita di immagine là. Vorrei che avesse invece ragione”. Con finezza, con garbo e persino con ironia, il racconto affronta i temi seri e spinosi dell’incanto e disincanto, della “voglia di incantamento” che prende forza dalle speranze in un’utopia, in questo caso di un comunismo alternativo al modello sovietico. Quell’incantesimo personale e collettivo, pur capace di mobilitare grandi energie giovanili, osserva, aveva alle spalle un entroterra, un contesto culturale fatto di letture, scelte editoriali – dalla traduzione einaudiana nel 1967 di Edgar Snow, Stella Rossa sulla Cina, prima grande operazione di propaganda dei comunisti cinesi in Occidente, analizzata in un recente libro di Julia Lovell, Maoism: a Global History, Bodley Head 2019), alle pubblicazioni di sinologi o studiose autorevoli (quali Edoarda Masi o Enrica Collotti Pischel) – che predisponevano a una visione luminosa della Cina, ma per molti aspetti edulcorata e priva di un distacco critico che aprisse al dubbio sui meccanismi di un sistema totalitario. Più attenta alle ombre, Renata Pisu non riuscì allora a far tradurre opere di autori, come Simon Leys in Francia, che mettevano in discussione il culto della personalità e l’esercizio del potere di Mao, fino a una minaccia di sciopero della redazione Bompiani quando propose di pubblicare le memorie di Jean Pasqualini sui campi di lavoro cinesi. Ricorda l’autrice di aver contribuito lei stessa, con le Edizioni Oriente e “Vento dell’Est”, a trasmettere quell’immagine parziale della Cina fin nel 1978, quando trascurarono completamente, nel prendere le distanze dalle Quattro modernizzazioni dell’inviso Deng Xiaoping, le rivendicazioni della Quinta, per una svolta democratica con una critica a fondo di Mao, da parte di un nascente movimento cinese per i diritti umani, presto represso e dimenticato in Italia. Persino Rossanda, ancora dopo Tiananmen, esprimeva nostalgie maoiste attribuendo quell’esito alla via capitalistica imboccata da Deng.
A dare conto della realtà della rivoluzione culturale, fra lotte di potere al vertice e violenti scontri tra fazioni nelle città, avrebbe provveduto dagli anni novanta – ben prima della poderosa e ben documentata ricerca storica di Macfarquhar e Schoenhals, Mao’s Last Revolution, mai tradotta in Italia – la “letteratura delle ferite e delle cicatrici”, con le memorie e testimonianze dirette di attori e vittime di una trilogia dei re di Acheng (Theoria, 1990-91). Fra tutte, la voce di Yang Jiang, fine intellettuale cosmopolita e traduttrice del Don Chisciotte in cinese, che nei suoi racconti (tradotti da Silvia Calamandrei, Il tè dell’oblio, Einaudi 1994) ripercorre con leggerezza e understatement, dopo le prime persecuzioni degli anni cinquanta, le vessazioni e messe alla gogna cui erano stati sottoposti nel 1966-67 lei e il marito quali “autorità accademiche borghesi” da rieducare. Riconciliarsi con il passato tenendone a bada i demoni per guardare al futuro è la lezione taoista che ne trae. Sivia la incontra alle soglie dei suoi cent’anni e a lei dedica il suo libro, ammirata dalla grazia con cui l’ha portata ad attraversare lo specchio di una civiltà millenaria e stratificata, che continua a osservare in cerca dei modi di un possibile dialogo.
Oggi la Cina è una grande potenza economica globale, con una governance autocratica di sorveglianza capillare che offre benessere in cambio dell’acquiescenza smentendo l’idea di un nesso inevitabile tra capitalismo e democrazia, e stringe la sua morsa su chi non si omologa, da Hong Kong agli uiguri del Xinijang. E chissà se la Cina, con il suo modello di capitalismo illiberale efficiente e rapido nelle decisioni, proiettata nel mondo lungo le vie della seta e il soft power degli istituti Confucio, non potrà suscitare un nuovo incantamento a misura del XXI secolo?
Ringraziamo l“L’Indice dei libri del mese” e l’autrice per averci concesso di ripubblicare questo articolo incluso nel numero 5 del mese di maggio 2022 (p.5). Il libro è stato presentato a Istoreto http://www.istoreto.it/event/presentazione-del-libro-attraverso-lo-specchio-cina-andate-ritorni/