Il pericolo di un nuovo negazionismo si aggira tra le destre europee

L’articolo è stato pubblicato su “La Stampa” il 27 gennaio   2023*

Quando la memoria di Auschwitz si è affievolita subito il negazionismo ne ha approfittato. Negare a Shoah o relativizzarla (“..anche i comunisti però”), abbassarla a una pratica totalitaria come altre, è stato l’humus di una cultura alla quale le destre europee hanno abbondantemente attinto.
Gli orrori dei conflitti post novecenteschi hanno fatto il resto. Le immagini di morte arrivate nelle nostre case dai focolai di guerra che si sono accesi nel mondo globalizzato hanno progressivamente cancellato le efferatezze che il Novecento ci ha lasciato come sua triste eredità.
In particolare poi, con la scomparsa degli ultimi testimoni, sembra proprio che il ricordo di Auschwitz – nel migliore dei casi- sia destinato a essere imbalsamato in una folla di celebrazioni ufficiali che rischiano di rinchiudere la Shoah in un “monumento” incapace di comunicare ed emozionare.
Nella mia generazione il binomio conoscenza storica/emozione ha sempre accompagnato la lezione di Auschwitz. Più conoscevi la Shoah, più te ne indignavi e più eri consapevole che quel passato non doveva mai passare. Con il trascorrere del tempo, mentre l’orrore-emozione della memoria è stato scalzato da altri orrori, la conoscenza storica è invece restata e si è ingrandita.

Lo sterminio degli ebrei non è un archetipo del male, uno di quei miti che attraversano il tempo fino ad apparire senza tempo, ma è una realtà costruita da uomini contro altri uomini e che, proprio per questo, va inserita nei percorsi della storia più che in quelli della memoria. Sempre, per restare nel Novecento, le guerre e il totalitarismo hanno messo in scena una violenza eccessiva, sproporzionata rispetto ai risultati che si volevano ottenere: e tuttavia i suoi scopi erano comunque riconoscibili; per quanto perversa c’era comunque una logica strategico-militare dietro l’uso della bomba atomica o dei bombardamenti indiscriminati contro i civili, così come nell’ossessione produttivistica che alimentava il delirio totalitario dello stalinismo.

Nello sterminio praticato dai nazisti c’era invece esclusivamente un progetto totale di morte. Auschwitz era una fabbrica di morte, organizzata secondo lo schema della catena di montaggio della fabbrica fordista che ne sottolineava la modernità e la mostruosità. Ma è l’intera violenza genocidiaria che si sprigiona nel lager ad ammonirci, a metterci in guardia contro le crudeltà che affiorano oggi, nellanostra contemporaneità . Il dileggio per le vittime, il disprezzo e l’irrisione per quelli che i nazisti consideravano sub umani (gli ebrei soprattutto, ma non solo) sono “sentimenti” che appartengono integralmente alla Shoah e sui quali la storia si è a lungo interrogata. Il genocidio passava attraverso la disumanizzazione delle vittime in quella che possiamo considerare l’anticamera di ogni persecuzione e di ogni pulsione repressiva. E oggi ? Cosa sono le donne nell’Afghanistan dei talebani se non esseri inferiori da tenere rinchiusi, segregati, espulsi da ogni tipo di spazio pubblico? E gli oppositori del regime iraniano, incarcerati, impiccati, ammazzati come se fossero qualcosa di impuro darimuovere?
Era così anche per chi veniva ucciso nel lager e studiarne il modo in cui era messo a morte è l’unico strumento che abbiamo per non consentire a quel passato di “passare”.
Le vittime erano viste come un virus pestilenziale da annientare, che non meritava né considerazione, né rispetto. E spesso sui loro corpi si esercitava il sadico divertimento degli aguzzini. Il 10 maggio 1943, nella cava di pietra di Buchenwald, un gruppo di SS scommise – 6 sigarette, due bicchieri di birra- su chi fosse riuscito ad ammazzare un prigioniero lanciando una sola pietra. Il risultato di quella prova furono 17 vittime, tra morti e feriti. Nei campi, le umiliazioni che subivano i condannati a morte avvenivano davanti a spettatori che erano gli altri detenuti, tutti già stravolti da una paura che era la dimensione permanente della loro esistenza. Non c’erano popolazioni civili da terrorizzare o da ricattare, come avveniva di solito per le pubbliche esecuzioni di massa di chi prendeva le armi contro i nazisti; non si trattava quindi di ammonire ma di ribadire una sottomissione totale così da attribuire a quelle messe in scena i tratti di una violenza parossistica, assoluta.

Come ci ha raccontato Sofski, i detenuti condannati per qualche infrazione disciplinare, venivano impiccati. Con un cartello al collo che indicava il loro reato, i condannati si avviavano all’esecuzione accompagnati da una musica allegra suonata dalla banda musicale composta dai loro stessi compagni prigionieri; poi il responsabile del lager teneva un discorso minaccioso insultando quelli che stavano per essere uccisi, sbeffeggiandoli. Il boia, infine, faceva il suo lavoro. La vittima non aveva diritto alla benda sugli occhi né poteva pronunciare delle parole di saluto e le SS andavano su tutte le furie quando un condannato riusciva a lanciare un ultimo grido indirizzato agli altri prigionieri. L’umiliazione era completa: chi moriva era considerato indegno perfino di essere giustiziato in conformità di quanto previsto dalle tradizioni civili e militari. Nel lager, la punizione si collocava fuori dal concetto e dalla pratica della sanzione penale;
alle vittime non fu accordato neanche lo status di “nemici”, ritenendoli semplicemente superflui e spianando così la strada ad atti di violenza tanto gratuiti quanto crudeli.

Abbiamo visto di recente quanto siano importanti le “ultime parole”: “Non voglio che piangiate sulla mia tomba né che leggiate il Corano o preghiate; voglio che siate felici e suoniate musica allegra” ; sono state quelle del 23enne iraniano Majidreza Rahnavard,  il secondo ragazzo giustiziato dalla Repubblica islamica il 29 novembre 2022 per aver partecipato alle proteste anti-governative.
I suoi aguzzini lo hanno lasciato parlare sicuri di infangarne la morte e facendone invece un eroe.

*Lo storico Giovanni De Luna scrive per il quotidiano “La Stampa”. Lo ringraziamo per averci concesso di ripubblicare questo articolo.

 

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