L’articolo è stato pubblicato su “Tuttolibri” de “La Stampa” il 27 maggio 2023*

Nel corso della seconda guerra mondiale anche i militari italiani si sono macchiati di crimini orrendi.  A proporne un elenco dettagliato è ora l’ultimo libro di Eric Gobetti, I carnefici di Mussolini, che fornisce un utile promemoria su tutte le guerre condotte dal fascismo, a partire da quelle africane, in Libia (1928-1932) e in Etiopia (1935-1936), e dalle successive repressioni contro i locali movimenti di indipendenza. Il racconto del massacro nella città conventuale di Debra Libanos, dove nel maggio 1937, dopo un attentato al vicerè Rodolfo Graziani, per rappresaglia, furono uccise 2000 persone tra preti copti, diaconi e disabili che vi abitavano, si intreccia così con la tragedia del campo di concentramento di Arbe, uno dei peggiori lager fascisti, istituito durante la Seconda guerra mondiale dopo l’annessione italiana di una parte della Slovenia e di altri territori appartenenti alla ex Jugoslavia e nel quale, dal luglio 1942 al settembre 1943,  furono internate tra 10 e 15mila persone, perlopiù sloveni, croati ed ebrei, e si contarono circa 1500 morti. E aggiungiamoci anche la durezza della repressione antipartigiana in Grecia, in Albania, in quei Balcani che avremmo dovuto “pacificare” e che invece contribuimmo ad incendiare armando, gli uni contro gli altri, sloveni e croati, serbi e montegrini, tutti popoli coinvolti anche in una sanguinosa guerra civile. 

Come nota Gobetti, comportamenti di questo tipo furono largamente diffusi in tutti gli eserciti dei paesi belligeranti anche se poi, alla fine, non tutti furono chiamati a rendere conto del loro operato davanti ai giudici. Per rimanere ai paesi dell’Asse, sconfitti sul campo, a prescindere dai grandi processi di Norimberga e Tokio, in Germania, nella sola zona di occupazione sovietica, furono circa 150 mila i procedimenti penali avviati contro i dirigenti nazisti, politici e militari, con centinaia di condanne a morte mentre, nella zona occidentale, i tribunali alleati condannarono migliaia di persone, giustiziando 486 colpevoli; nel dopoguerra, i soli tribunali della Repubblica Federale giudicarono 16.740 cittadini tedeschi, con 16 condanne a morte e 116 all’ergastolo. Per quanto riguarda il Giappone, i processi durarono fino al 1953, con circa 10 mila procedimenti e centinaia di condanne a morte.  

In Italia non andò così. Non ci fu niente di simile a Norimberga (o a Tokio) e i pochi procedimenti contro i militari italiani per crimini di guerra, avviati subito dopo la fine delle ostilità,  riguardarono gli arrestati o gli inquisiti dagli Alleati nelle loro zone di occupazione, con un vistoso paradosso: gli angloamericani condannarono a morte e fucilarono, nel settembre del 1945, il generale Nicola Bellomo, uno dei pochi che si era opposto ai nazisti dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943. Un caso emblematico fu quello del generale Mario Roatta, che- con una solida carriera fascista alle spalle- tra il marzo 1942 e il febbraio 1943 aveva comandato la Seconda armata di stanza in Slovenia, Dalmazia e Croazia. Dopo la guerra, la Jugoslavia si adoperò per processarlo per i suoi crimini del regime; arrestato dalle autorità italiane riuscì a sottrarsi alla giustizia in modo rocambolesco e a riparare nella Spagna di Franco. Fu condannato all’ergastolo in contumacia, ma la sentenza venne annullata il 6 marzo 1948. Nell’elenco di Gobetti, Roatta figura accanto ad altri militari resisi tristemente famosi per la durezza con cui interpretarono il loro ruolo di occupanti, scatenando rappresaglie che coinvolsero soprattutto vittime civili: il generale Alessandro Pirzio Biroli, in Montenegro; il generale Rodolfo Graziani, prima come vicerè di Etiopia, poi come comandante dell’esercito della mussoliniana Repubblica sociale; Carlo Geloso, governatore della Grecia, e tanti altri civili e militari (Eugenio Coselschi, Giuseppe Pièche, Mario Robotti, etc…). 

Tutti nomi noti, coinvolti in vicende già conosciute dagli storici. Questa volta, però, il libro di Gobetti si proponeva di affrontare un nodo interpretativo radicalmente nuovo. Cosa spinse verso quei crimini, non tanto i generali ma i nostri soldati, gli italiani comuni, tutti quelli che non erano sadici assassini, ma uomini normali…? e allora perchè? 

Le risposte fornite da Gobetti sono molteplici: il contesto di violenza in cui quei soldati operarono (“mi sento un boia a furia di vedere barbarie incattivisco” scriveva uno di essi) ; un’idea di patria violenta e aggressiva; il razzismo, verso gli slavi e non solo, che segnava le pratiche genocidiarie; l’ebbrezza di potersi abbandonare senza freni allo sfruttamento sessuale delle donne del nemico; l’anticomunismo e la diffidenza verso le idee libertarie, etc… Tutti elementi riconducibili all’ideologia di un fascismo durato venti anni. Pure, resta ancora un mistero storiografico il meccanismo che scattava quando si entrava in un territorio in cui era obbligatorio togliere la vita ad altri essere umani, quando si varcava una soglia, violando un precetto religioso (“non uccidere”) e una norma giuridica, assumendosi i compiti del boia e sentendosi per questo altrettanti “eroi”. Questa storia è ancora da scrivere. Ci vogliono altre fonti, occorre scavare nei diari e nelle lettere dei soldati, avvicinandosi così alle radici delle motivazioni che spinsero allora tanti nostri connazionali a smettere di essere “brava gente” per trasformarsi  nei “carnefici di Mussolini”. 

*Lo storico Giovanni De Luna, videpresidente di Istoreto, scrive per “La Stampa”. Lo ringraziamo per averci concesso di ripubblicare questo articolo.

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